In genetica, il termine “fenotipo” è utilizzato per indicare l’insieme di tutte quelle caratteristiche fisico-morfologiche, osservabili in un determinato organismo e scaturenti dalle interazioni tra il genotipo e l’ambiente.

Recentemente, l’uso di questa parola è stata introdotta anche in ambito clinico, con lo scopo di descrivere l’insieme di tutte quelle caratteristiche cliniche osservabili, in un dato individuo, in grado di influenzare la risposta ad una determinata terapia. Riuscire ad inquadrare correttamente il fenotipo clinico di un paziente, significa compiere un’importante azione orientativa e predittiva, utile per conoscere anticipatamente la risposta individuale ad un dato intervento e di conseguenza, per l’elaborazione di terapie costruite a misura della singola persona.

Uno degli esempi più rappresentativi, in questo senso, è il concetto di “fenotipizzazione del dolore“. Come ben risaputo infatti, se dovessimo sottoporre un gruppo di pazienti ad una medesima terapia analgesica, verrà a determinarsi la comparsa di un’enorme varietà di risposte.

Questa grande eterogeneità di risultati è spesso fonte di frustrazione per il clinico in quanto, a parità di condizioni, ciò che può essere considerato efficace per una persona (risposta positiva al trattamento) potrebbe rivelarsi non efficace o poco efficace per un’altra, creando contesti di difficile gestione.

Questo è uno dei presupposti che ha portato ad elaborare nel tempo il concetto di “medicina di precisione”, ovvero, l’ideazione di terapie del dolore personalizzate e basate su algoritmi delineati empiricamente.

Nella fenotipizzazione, dunque, un presupposto fondamentale è procedere nell’identificazione delle caratteristiche che rendono una persona “responder” o “non responder” alle terapie. Di queste, le variabili maggiormente riportate e conosciute, riguardano le dimensioni psicosociali e comportamentali, tuttavia, si stanno aggiungendo anche ipotesi rispetto alle differenze inter-individuali di modulazione endogena del dolore.

Il concetto di fenotipizzazione e le terapie manuali

Questo concetto è una nuova sfida non solo per la medicina e la farmacoterapia, ma anche le stesse terapie manuali (MT); cerchiamo di capire il perché.

🔴 IL NUOVO EDITORIALE:
Anzitempo, si è ipotizzato che l’efficacia clinica delle terapie manuali (MT) risiedesse in determinate caratteristiche appartenenti alla metodica stessa (es. la tipologia di tecnica scelta, la formazione dello specialista e l’abilità del clinico). A prova di questo, è stato effettivamente dimostrato che una formazione di livello superiore, determini risultati migliori.

Tuttavia, secondo quanto riportato nell’ultimo editoriale di Journal of Manual and Manipulative Therapies, dagli autori Damian K, Chad C, Kenneth L, David G, è arrivato il tempo di cambiare questa visione e promuovere un salto paradigmatico. Secondo gli autori, infatti, non è possibile asserire che nei contesti di pratica clinica, alla base di risposte terapeutiche cosi diversificate (differenza di riposta inter-individuale), vi siano ragioni legate alla tipologia di tecnica utilizzata o alla minore/maggiore abilità del terapista manuale.

Anche per il nostro campo è giunta l’ora di focalizzare la variabilità di risposta clinica inter-individuale nell’ottica dei fenotipi di appartenenza. In poche parole, tanto più il fenotipo clinico del paziente sottoposto a terapia manuale presenterà caratteristiche di risposta favorevole al trattamento (fenotipia del dolore di tipo favorevole), tanto più si avranno possibilità di ottenere risultati statisticamente significativi.

Una simile posizione sovvertirebbe il classico luogo comune secondo il quale, il terapista manuale, con la propria abilità e formazione sia l’unico protagonista dello  scenario clinico. Secondo questa logica, infatti, la riuscita della terapia dipenderebbe tanto dal terapista quanto dal paziente stesso.

🔴 TERAPIA MANUALE: TANTE TECNICHE, MECCANISMI COMUNI
Ma cosa ha spinto gli autori ad essere così drastici? Ad oggi, tutte le forme di MT hanno dimostrato di essere caratterizzate da meccanismi d’azione comuni. Su questi meccanismi sono state formulate le principali ipotesi dei contributi analgesici della terapia manuale. In particolare, vengono riportate le risposte modulatorie periferiche e centrali, spinali e/o sopraspinali, indicate dalla ricerca come la “pietra angolare” dei processi di inibizione del dolore.



Queste azioni inibitorie sono state più volte dimostrate utilizzando strumenti di riferimento clinico (es. aumento locale della soglia pressoria dolorifica – PPT – oppure la sommazione temporale di stimolo) e sono state altresì postulate modificazioni dei marker infiammatori sistemici ed il coinvolgimento di specifici circuiti centrali inibitori.

È stato contemplato, per di più, che la MT determini la produzione di precisi neurotrasmettitori come ossitocina, serotonina e dopamina. Queste molecole sono in grado di alterate la dimensione algica ed affettiva della persona, attenuando l’espressione dolorifica, sia a livello centrale che spinale, esprimendo la loro azione in siti d’azione corrispondenti: corno dorsale del midollo spinale, grigio periacqueduttale, talamo, gangli della base, corteccia insulare e corteccia cingolata.

Altro parametro considerato nelle ricerche di terapia manuale, è stata la misura della reattività del sistema nervoso autonomo (ANS). Tali misurazioni vengono solitamente garantite da strumenti quali la misurazione termica cutanea, la conduttività dermica, la frequenza cardiaca e la cortisolemia. Studi recenti hanno confermato che la reattività autonomica coinvolga sia la componente ortosimpatica che parasimpatica, ma non è stato mai approfondito se l’utilizzo di differenti tecniche manuali determini, a sua volta, una differenza di risposte ANS.

Dunque, alla luce di questi dati perché essere ancora dubbiosi? Secondo gli autori dell’editoriale, l’unica certezza che hanno fornito questi studi è stata la semplice produzione di risultati “meccanicistici” coerenti. Osservare l’instaurazione di queste riposte corporee non basta, occorre infatti comprendere il reale impatto che questi meccanismi potrebbero avere sulla sintomatologia clinica, o più brevemente, occorre comprendere gli “esiti clinici” di questi meccanismi.

In questo stato di cose, è improbabile affermare che la ragione di una così grande eterogeneità di risposte cliniche, nei contesti di MT, siano riconducibili esclusivamente ad una ipotetica differenza dei meccanismi innescati dalle MT stesse. La risposta a questo quesito non può che risiedere nella variabilità di fenotipo clinico del paziente.

🔴ALCUNE ESEMPLIFICAZIONI:
Gli autori riportano nel testo alcuni esempi (per esigenze di spazio verranno elencati solo alcuni):

  • nei pazienti con dolore cronico, il raggruppamento secondo determinate caratteristiche del dolore (intensità, posizione e durata) ha dimostrato che le interazioni tra tensione psico-emotiva, comorbidità (fibromialgia), disagio sociale e genere sessuale d’appartenenza,  determinino un preciso fenotipo clinico d’appartenenza, dal quale può dipendere il tipo di risposta clinica;
  • nei pazienti con dolore somatico diffuso, l’interazione tra variabili quali ansia, depressione e stabilità emotiva, contribuiscono a delineare un ulteriore fenotipo a cui corrisponderebbe una determinata risposta clinica;
  • gli individui con dolore basale di elevata intensità, dimostrano di ottenete risultati migliori quando trattati. Pertanto, avere una maggiore intensità del dolore basale è un segno predittivo di potenziali effetti benefici da parte della terapia manuale; differentemente, gli individui con una minore intensità dolorifica, raggiungono indici di miglioramento soprattutto in item quali depressione ed ansia correlate al dolore;
  • osservazioni sulle manipolazioni toraciche hanno dimostrato che aspetti come il recupero ed il comfort “percepito” durante il trattamento, siano in grado di influenzare la risposta terapeutica più dei parametri biomeccanici appartenenti alla tecnica; effettivamente al variare dei parametri biomeccanici della tecnica, non si sono registrate variazioni nella risposta terapeutica.

🔴LA DIFFERENZA È NEL PAZIENTE?
Gli studi clinici e le revisioni supportano che le MT abbiano un effetto diretto sulla riduzione della sensibilità al dolore, questo sia in contesti di dolore persistente che episodico. Tuttavia, resta insoluto se questa azione possa considerarsi tecnica-dipendente o se tali risultati siano dipendenti da fattori intrinseci il paziente, in particolare, dalla capacità endogena di regolazione analgesica.

D’altronde ogni tecnica (almeno quelle indagate dagli autori), ha riportato risultati sovrapponibili e meccanismi d’azione comuni, siano esse manipolazioni, mobilizzazioni ed addirittura sham. Ad esempio, a parità di tecnica (HVLA), sono stati osservati miglioramenti dell’algesia sia durante manipolazione del segmento spinale più doloroso, sia in assenza di criteri specifici per la manipolazione.

La letteratura non è riuscita finora ad identificare in modo coerente fattori predittivi delle risposte terapeutiche da parte delle MT e di fronte a questa generale mancanza di correlazione tra profilo del dolore e l’esito clinico sul dolore, si è inclini a credere che la risposta analgesica del paziente possa dipendere più dal fenotipo (fenotipo di maggiore adattabilità al dolore) che dalla tecnica in sé.

🔴 I CONTRIBUTI DELLA RICERCA:
Se questa visione dovesse confermarsi, la ricerca di settore avrà l’onere e la capacità di identificare tutte quelle caratteristiche appartenenti agli individui con risposta favorevole alle MT.

Ad esempio, alcuni lavori di osservazione preliminare sulle MT, in contesto di mal di schiena e cervicalgia, hanno suggerito che ottenere una risposta positiva precoce (riduzione del dolore > 30%) sia indicativa di migliori risultati a lungo termine (dimissione e dopo 6 mesi di follow up).

Nonostante questi dati possano sembrare promettenti, questi studi non riescono a definire se i risultati clinici siano specifici della MT o dipendano da altre variabili associate, in particolare, dalla capacità endogena del paziente di modulare le riposte al dolore e la loro propensione adattiva al dolore.

A tal motivo, studi simili dovrebbero essere perfezionati ulteriormente, ad esempio, con l’inclusione del “test con il pressore a freddo”, in grado di comprendere la capacità di un individuo di rispondere a stimoli nocivi localizzati, sostenuti e ripetitivi, mediante una diminuzione della sensibilità agli stimoli (profilo di adattabilità al dolore) o mediante aumentata sensibilità (profilo di non adattabilità al dolore). Da qui, sarebbe necessario verificare se l’appartenenza ad un profilo di positiva adattabilità al dolore corrisponda ad una propensione di riposta favorevole alle MT.

Si potrebbe altresì procedere in una responder analisis (RA), ovvero, un’analisi secondaria di tutti i soggetti considerati responsivi, cosicché possa essere tracciato un valore soglia minimo  clinicamente importante (es. riduzione del dolore >30%). Tipicamente, queste RA vengono eseguite negli studi controllati randomizzati (RCT) con disegno in parallelo ma, aggiungono gli autori, anche questa modalità potrebbe non bastare.

Secondo gli studiosi infatti, occorrerebbe elaborare un trial con disegno crossover.
In questo specifico disegno di ricerca, tutta la popolazione soggetta ad osservazione verrebbe sottoposta sia ad intervento sperimentale sia ad intervento comparatore, ma con sequenza di somministrazione opposta, ovvero:

– Sequenze A -> B per un gruppo (es. terapia manuale e poi esercizio fisico)

– Sequenza B -> A per l’altro (prima esercizio fisico e poi terapia manuale).

Per evitare che gli effetti del primo trattamento alterino la risposta del secondo (carry over effect) è previsto un periodo di wash-out, dove viene sospesa la somministrazione del primo trattamento con lo scopo di annullarne gli effetti terapeutici. Solo passato il periodo di wash-out, si potrà passare alla valutazione dell’effetto del secondo intervento, tirando oggettivamente le somme su quanto sia stata incisiva la tecnica indagata nei differenti gruppi.

🔴 CONSIDERAZIONI PERSONALI:
Il concetto di inquadrare i pazienti in un determinato profilo clinico e con lo scopo di determinare in anticipo pronostici di risposta terapeutica, è un’azione decisamente affascinante.

Questa capacità non deve essere vista come un incasellamento della persona, ma quanto il tracciamento di una road map che orienti il clinico ed il paziente (profiling di riferimento). Questa modalità di incedere potrebbe essere utile per diversi scopi: ragionamento clinico, elaborazione del piano terapeutico, comprensione di quali professionisti includere nel piano di cura e, non per ultimo, capire come far risparmiare tempo al paziente, il quale non sarà invitato a seguire approcci per i quali potrebbe non essere responsivo.

Sicuramente, i concetti che hanno portato a questa presa di posizione erano in moto da tempo: ad esempio pensiamo alla necessità di inquadrare nel ragionamento clinico le yellow flags, le quali determinano una profonda influenza sulla responsività terapeutica. Ma pensiamo anche al mondo della terapia manuale: già nei primi del 2000 gli autori Childs JD, Fritz JM, Flynn TW, et al. avevano evidenziato che nei pazienti con mal di schiena, la somministrazione di HVLA lombari si dimostrava efficace solo in presenza di determinate caratteristiche cliniche (regole di predittività).

In ogni modo, il concetto di fenotipizzazione mette a fuoco un aspetto  rivoluzionario ed affascinante: la diade terapeurica. Non ci sono protagonisti unici, ma due soggetti di importanza equiparabile per il processo di cura.

In questo modo la persona, solitamente ridotta a semplice “oggetto”, riprende la propria posizione di soggetto, riacquistando un’importanza tale da costringere al clinico a fare i conti con la realtà individuale del proprio assistito (il paziente è contemporaneamente “chiave” e “lucchetto”). Queste potrebbe rappresentare una grande lezione di umiltà per tutti.

Forse, l’unica pecca degli autori è stato dare per scontato che sulle tecniche manuali sia stato già compreso tutto; a mio modesto parere, invece, c’è ancora molto da approfondire. Aver puntato l’obbiettivo su alcuni aspetti della realtà non significa aver messo a fuoco tutto.
Per di più, a conferma di quanto postulato, negli studi andrebbero incluse tutte le tecniche manuali esistenti. Buona lettura!🤗

🔴FONTI:
https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/10669817.2022.2052560

doi: 10.1186/1745-6215-8-31

doi: 10.7326/0003-4819-141-12-200412210-00008.

doi: 10.1097/j.pain.0000000000000602.

https://journals.lww.com/spinejournal/Abstract/2002/12150/A_Clinical_Prediction_Rule_for_Classifying.21.aspx

https://www.evidence.it/articolodettaglio/209/it/313/trial-controllato-randomizzato-un-disegno-numerose-varianti-g/articolo
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Dott. Antonio Pranzitelli
Fisioterapista Osteopata
TERMOLI (CB) 86039